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Navigare le stelle
Un giovane astronauta immerso nello spazio fissa lo sguardo su un cuore che custodisce un’ancora. È l’immagine che ci accompagnerà per questo nuovo anno, come interpretazione e sintesi della proposta educativo-pastorale del Movimento Giovanile Salesiano.
L’astronauta è, per etimologia, colui che “naviga le stelle”. È l’educatore che ha compiuto e continua a compiere la propria esplorazione, tra le stelle dei suoi sogni e di quelli dei suoi ragazzi; è allo stesso tempo il ragazzo dei nostri cortili e delle nostre realtà, che – tra “luci di comete” e “asteroidi in frammenti” – cerca di proiettarsi nell’universo del proprio futuro. L’uno e l’altro con il cuore in mano, per guardarlo e ascoltarlo, per conoscerlo più a fondo. Il primo vede in quel cuore non solo il suo cuore, ma anche quello del secondo, ed è suo compito sorreggerlo dal basso, senza afferrarlo, lasciandolo libero, per guidarlo sempre più in alto. L’ancora impressa sul cuore è per entrambi la speranza che viene fuori dalla certezza di sentirsi amati. Il viaggio che ciascuno di noi è chiamato a compiere è verso quel luogo – dentro e fuori di sé – dove ci si riscopre “attesi dal suo amore”.
L’astronauta oggi è sbarcato sul pianeta della speranza. Ha subito trovato tanti bei discorsi, ma poca concretezza. Il nostro mondo e la nostra cultura hanno reso la speranza un farmaco per curare l’insoddisfazione del presente, trasformandola di fatto nell’illusione di un futuro che poi alla fine non c’è. Questo non vuol dire che non esiste un futuro da sognare: un astronauta non è tale se non sogna la luna; Dio stesso, all’inizio della Bibbia, stabilisce la sua promessa di futuro tra le stelle e le consegna ad Abramo, primo astronauta della Storia della Salvezza. La speranza non è la luna, non sono le stelle: è nel cammino verso la luna, è cominciare a contare le stelle una ad una.
Ma il filo che unisce l’ancora della speranza al cielo talvolta si rompe, perché oggi ci sono sempre più ostacoli che ci impediscono di sperare davvero.
- Il facile ottimismo e l’individualismo. Speranza non vuol dire convincersi che necessariamente in futuro “andrà tutto bene”, né tantomeno è un percorso verso l’esclusiva realizzazione di sé. Se così fosse, sarebbe un’inutile alienazione dal presente e una superba concezione del mondo come ‘tutto ciò che mi serve per essere felice’, io da solo.
- La rigidità del pensiero e dei sentimenti. Siamo sempre più impreparati a vivere situazioni che esulano dall’orizzonte dei nostri schemi. La volontà di tenere tutto sotto controllo paralizza la speranza, genera continui stati di ansia e paura, offusca la nostra capacità di agire.
- L’indifferenza verso ciò che ci circonda. Non esiste speranza se non c’è apertura alla realtà. Vivere senza lasciarsi toccare dalla vita intorno rende il tempo tutto uguale a sé stesso. Non basta guardare i propri piedi per essere certi di camminare nella direzione giusta.
- Non prendersi sul serio. Abbiamo costruito negli ultimi decenni tutto ciò che serve per anestetizzarci, riempiendo in ogni modo gli spazi e i tempi da dedicare a una più profonda conoscenza di noi stessi. Se viene alla luce un nostro difetto, se abbiamo una ferita aperta, se non riusciamo a vivere con intensità una relazione, preferiamo rimandare, tanto prima o poi si risolverà. Non può sperare chi decide di subire gli eventi.
Spesso, quindi, ci siamo accontentati di pensare alla speranza come uno sguardo benevolo sul futuro. La speranza è molto di più: è lo strumento reale e concreto attraverso cui la fede dispone il nostro presente in direzione del futuro. Benedetto XVI, nella sua enciclica Spe salvi, insiste nel domandarsi "cosa possiamo sperare? Oggi ci chiediamo come possiamo sperare?"
- Avere occhi intelligenti. L’unico modo per sopravvivere alla cultura della mediocrità e della superficialità è mettere in connessione lo sguardo esteriore con quello interiore: avere un’anima capace di leggere dentro, a fondo, (intus-legere) sé stessa e la realtà.
- Cercare un senso nelle cose. Per non lasciarsi vivere dagli eventi occorre individuare continuamente, giorno per giorno (magari prima di andare a dormire), i segni che essi lasciano nella nostra vita. Man mano le cose risulteranno meno sconnesse e la speranza avrà contorni sempre più definiti.
- Pensare e vivere il proprio progetto di vita. Individuare le debolezze su cui lavorare e prendere coscienza delle proprie forze per lanciarsi in avanti (pro-iectare) e orientare le proprie scelte. Vivere secondo un progetto aiuta a sperare in modo più ordinato.
- Sporcarsi le mani. In noi stessi non troveremo mai tutta la speranza di cui abbiamo bisogno. Gran parte della speranza ci viene donata quando ci doniamo agli altri, quando decidiamo di impegnare concretamente il nostro cuore al servizio di qualcuno, perché sperare insieme è sperare di più.
- Aprirsi all’imprevedibile. C’è da imparare ad accettare con fede tutto ciò che ci capita: è un lavoro lungo e faticoso, ma che libera la speranza dai filtri dei nostri paradigmi, la rende docile e umile. Una preghiera semplice ma costante è un’ottima scuola di docilità e umiltà, è lo spazio e il tempo in cui ci accorgiamo che Dio lavora sulle nostre attese per farle combaciare con le sue promesse e i suoi progetti.
Ecco che quel filo tra terra e cielo sarà tanto più fragile quanto più la nostra speranza sarà fondata su ciò che passa e su una visione idealizzata di futuro. Resisterà, invece, se la nostra speranza sarà cristiana, fondata cioè su una persona, Gesù Cristo, e su un futuro che è un presente che giorno dopo giorno si realizza. Cominciamo allora il nostro viaggio, “ancorati nella Speranza”!
Antonio Ruoti