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Harambée 2010 LOCRI
"Harambée", che nella lingua swahili significa “incontro”, “raduno festoso”, “comunità che si riunisce”, è il nome dell’incontro annuale di Animazione Missionaria dell’Ispettoria Meridionale Salesiana, in cui giovani provenienti da tutto il Sud Italia (Puglia, Campania, Basilicata, Calabria) si radunano per conoscere e “vivere” realtà vicine e lontane, comprenderne le problematiche guardando quel Gesù crocifisso attraverso gli occhi della gente che soffre per la dignità strappata per mano dell’uomo, ma soprattutto per arricchirsi del e nel Signore e tornare nelle proprie comunità pieni di speranza. Sì, proprio la speranza, perché questi incontri non servono per farci commuovere o per consumare emozioni, ma sono soprattutto delle modalità che ci aiutano a sperimentare nel cuore il Risorto “toccando” tutti coloro che hanno la forza di reagire, non con la violenza o urlando, ma con l’Amore e raccontando. Quest’anno l’Harambeè si è svolto a Locri, in Calabria, paradigma dei tanti piccoli centri isolati dal resto d’Italia che vivono dalle problematiche ambientali a quelle riguardanti la criminalità organizzata. Un posto, però, vicino “casa” che ci ha fatto riflettere anche sul significato dell’esser missionari. Alcuni cuori sognano di andare lontano, a volte il sogno diventa realtà, a volte no, ma è comunque possibile trasformare il desiderio di fare del bene testimoniando il Signore là dove ci ha chiamati, in primo luogo nelle nostre case, nelle nostre comunità, nelle nostre città, perché, in fondo, il nostro Kosovo, Madagascar e Albania si trovano dietro l’angolo. Il tema conduttore di questo Harembeè è stato “Non gridare, racconta”. Infatti quando si racconta qualcosa, che sia una favola o un vissuto, le orecchie dell’interlocutore ascoltano, il suo cuore fa memoria e comincia a camminare; le grida, le manifestazioni urlate, invece, volano via come il vento e seppur possano far male, poi si dimenticano. Un testimonianza forte in questo Harambeè è quella di una coppia di sposi, Silvia e Giuseppe, che ha scelto di vivere con la modalità dettata dalla Comunità Giovanni XXIII di don Benzi, aprendo nella loro casa una Casa Famiglia, ovvero scegliendo di condividere la propria vita, la propria vocazione genitoriale, in modo stabile, continuativo, definitivo, oblativo con le persone provenienti dalle situazioni di disagio più diverse. Silvia e Giuseppe sono persone come altre, ma che hanno avuto il coraggio di mettersi in discussione, anche andando contro i propri familiari e scontrandosi con la mentalità del posto Il loro è un cammino di coppia, ma anche un cammino di fede nella coppia vissuto in un periodo in cui si sperimenta qui in Italia la povertà spirituale, un matrimonio sobrio come in pochi osano fare al giorno d’oggi, un lavoro sicuro lasciato per spalancare le braccia ai bisognosi, una sfida, insomma, divenuta vita perché, come disse don Oreste Benzi a Silvia la prima volta che si son incontrati: “Non siete qui perché voi l’avete voluto, ma perché Lui vi ha scelti”. Questa scelta può sembrare apparentemente fuori dal comune, ma per loro è quotidianità. Cosa cambia? Aver messo Gesù al centro di tutto, non vederlo come “lontano”, ma come una persona di casa. Tra i tanti ricordi che porto nel cuore di questo Harambeè, voglio raccontarvi anche dell’esperienza di Silvia stessa con una ragazza madre: quest’ultima le riferì che il giorno in cui fu i servizi sociali le telefonarono per avvertirla che sarebbe potuta andare a casa della coppia stava per metter la sua bambina nella lavatrice e poi togliersi la vita. Lo so a cosa state pensando: «Come è possibile??!! Che donna orribile!!», ma il racconto che segue non è una giustificazione ad un pensiero avuto, quanto piuttosto una scossa che voglio darvi: questa ragazza spiegò di aver avuto questo pensiero perché non voleva far vivere alla figlia le sofferenze che aveva vissuto lei e questo era semplicemente il suo modo di amare. Con questo aneddoto, mi collego anche alle parole di Danilo, un tossicodipendente che abbiamo incontrato sempre in questa occasione. Alla domanda: «Perché non ascoltavi la gente che ti voleva bene e che ti diceva di non drogarti?», lui rispose: «Tutte queste persone mi consigliavano, ma non ascoltavano ciò che avevo da dire»… “Non ascoltavano”, ma aggiungerei anche “non guardavano”: questo è ciò che facciamo ogni giorno nelle nostre famiglie, con gli amici, con i nostri vicini di casa, nei nostri ambienti di lavoro. Se guardassimo senza rimanere indifferenti, se non ci chiudessimo in una vita fatta di sogni ma non vissuta, potremmo far evitare a tante madri di pensare che la maniera migliore per non far soffrire chi più si ama al mondo è di toglierle la vita; se ascoltassimo potremmo capire quali sono le reali esigenze di chi cerca nella droga qualcosa che non ha trovato altrove. Certo, chi ha bisogno di esser aiutato deve anche scegliere di volerlo, ma come disse Gandhi: “sii tu il cambiamento che vorresti vedere nel mondo”.