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A DISTANZA DI UN MESE DAL MIO ARRIVO...
Non sempre è facile raccontare le proprie emozioni e tanto meno descrivere ciò che si vede, ma a volte
questo sforzo può essere utile perché la gente possa condividere con te ciò che vivi.
Sono in Guatemala da più di un mese e sono sempre di più
innamorato di questo paese. Non ho scelto io di venire qui, ma
credo che non esistesse paese migliore per essere missionario.
Non conosco l’Africa e neppure altri luoghi dove si rivolge
spesso l’attenzione missionaria, e dove anch’io pensavo di
poter essere inviato, perché spesso ho solo sentito parlare di
quelle come regioni bisognose. In questo momento, dopo
questo breve tempo di permanenza, inizio a domandarmi del
perché si parli poco o niente di questi paesi Centro Americani.
Prima di venire qui non avevo esperienze missionarie e non
facevo parte di gruppi missionari, ero solo abbastanza sensibile
verso i giovani poveri. Stando qui tutto sembra così diverso, le
piccole esperienze che sto vivendo iniziano a cambiarmi. Tutti
mi chiamano “il missionario” e al sentire quella parola anch’io
rimango stupito, mi sembra troppo grande per me. Anche se
non sarò un grande missionario, mi accontenterei almeno di
morire come tale.
In questo mese di studio della lingua ho avuto l’occasione di
vivere delle profonde esperienze: il clima di famiglia con giovani
salesiani in formazione, le prime celebrazioni in spagnolo e le
primi contatti con i giovani. Ho avuto la fortuna di andare in un
luogo davvero speciale, si chiama “Casa Michele Magone”, un
orfanotrofio e casa di accoglienza per i ragazzi trovati per strada,
rifiutati dalle famiglie oppure sfuggiti a tutti i tipi di violenza. La
mia prima messa in spagnolo è stata con loro, un vero onore e un
dono del Signore. Io credo che è stato il momento in cui ho
davvero preso coscienza di essere in missione e che sono qui per
dare la vita. Dopo la messa, come ai tempi di don Bosco,
abbiamo avuto un momento di catechismo, e mi sono reso conto
che non avevo mai avuto una gruppo così attento, quasi da farmi
sentire a disagio. Il disagio lo provo anche quando mi chiamano
“padre o padresito”, perché lo esprimono realmente il loro affetto
verso quello che considerano un padre, e a volte io sono
eccessivamente distaccato, e penso alla guerra senza confini che
ha colpito la Chiesa, che in quel momento sto pagando io a
livello psicologico. Se la gente potesse vedere più spesso questo
lato bello della Chiesa, credo che inizierebbe ad amarla di più.
Questo è l’ultimo “Sogno Missionario” che scrivo dalla capitale, il
26 o 27 parto per le missioni nei villaggi. Inizia in contemporanea
la pratica dello spagnolo e l’apprendimento della lingua e cultura
“Q'eqchì”. Il popolo “Q'eqchì” è un popolo affascinante, basta
pensare che si salutano dandosi la mano e rivolgono questa
domanda: “Ma sa sa’ la ch’ol?” (Hai felicità nel tuo cuore?).
Allora “ma sa sa’ la ch’ol?” a tutti voi…