I nostri partner e noi utilizziamo i cookie sul nostro sito Web per personalizzare contenuti e pubblicità, fornire funzionalità ai social network o analizzare il nostro traffico. Cliccando acconsenti all'uso di questa tecnologia sul nostro sito web. Puoi cambiare idea e personalizzare il tuo consenso ogni volta che vuoi tornando a questo sito web. Può gestire le impostazioni relative ai cookie, cliccando su 'Gestisci cookie'.
Esperienza missionaria a Scutari
'Ti, Shqipëri, më jep nder, më jep emrin Shqiptar'
Non puoi insegnare ad un'aquila come si vola, come non puoi insegnare la resistenza ad un Albanese. L'Albania, per quanto sia vicina all'Italia, è un territorio sconosciuto a molti e, se conosciuto, considerato minore o giudicabile.
L'esperienza missionaria che stiamo vivendo a Scutari, dal 23 luglio al 4 agosto, ha l'obiettivo di sperimentare gli esercizi spirituali in un contesto povero, o quanto meno, svolgere l'attività di animazione salesiana con uno sguardo rivolto sempre verso la croce. È la prova concreta che a pochi chilometri di distanza da casa c'è un mondo "a pochi" passi da noi di cui non abbiamo la più pallida idea.
La natura Albanese salta subito all'occhio: una terra che "terra" lo è davvero, accompagnata da tre diverse fonti d'acqua. Ma oltre la natura mozzafiato, degna di nota e menzione, è la grande fede che pullula in ogni angolo. La coabitazione di tre religioni diverse, è qualcosa che pochi a questo mondo possono vantare, neanche la stessa Terra Santa. L'Albania invece, terra Santa lo è per davvero, ma non solo. È terra di martirio, di sofferenza. Una sofferenza che subito ti salta agli occhi: i più anziani, sulle rughe, hanno i simboli di quel regime che per anni ha distrutto loro, i loro figli ed i loro nipoti. Un bambino albanese nel 1960 imparava a mantenere i segreti prima di imparare a parlare.
Questa grande ferita non si nota solo con il carcere posto nel centro della città di Scutari, ma anche dall'architettura dei palazzi che ha fatto una corsa verso una modernità sfrenata, dimenticandosi che le mura dei palazzi ricordano molto bene, tanto è vero che trasudano rigidità.
Probabilmente in quegli anni Roszafa, che dal castello guardava Scutari, piangeva sangue, non le usciva più latte dal seno e, per il terrore e l'impotenza, la mano le tremava e si chiudeva ad ogni esecuzione. Nonostante tutto, abbiamo avuto la fortuna di conoscere la storia, e di meditare sul valore della libertà, valore che contraddistingue i ragazzi dell'oratorio dove abbiamo prestato servizio.
Il villaggio di Gur I Zi è di per sé un villaggio rurale, ma la speranza e la libertà sono il pane quotidiano di quei ragazzi, che si mettono realmente in gioco per un bene comune, il "bene più grande" di cui parlava il nostro Don Bosco. In queste esperienze c'è sempre il grande problema del racconto romanzato: possiamo raccontare la realtà ma, trascinati dalle emozioni e dalle aspettative a cui spesso ci aggrappiamo, rischiamo di raccontare qualcosa di diverso e più emozionale che però non è la realtà. Siamo sinceri: il rischio di cadere nel "buonismo spicciolo" era dietro l'angolo. La formazione del mattino, i racconti delle storie di vita e la prospettiva a cui la nostra fede è stata proiettata è stata fondamentale per non mostrarsi ai ragazzi come dei pupazzi che giocavano a fare gli animatori, ma ragazzi che prestano la loro esperienza per collaborare e portare il loro modo di vivere e vedere Cristo.
Di controparte, la possibilità di chiusura nei nostri confronti era possibile, e non c'è da biasimarli: dopo tutte le ferite inferte, chi ti entra in casa sorridendo può essere considerato stolto o peggio, essere visto come "nemico". Tutto questo non è successo.
I ragazzi di Gur I Zi hanno abbattuto qualsiasi frontiera del linguaggio, ci hanno stretto la mano e ci hanno regalato la loro fiducia, aprendoci le porte di casa e facendoci vivere il profumo della semplicità nei rapporti: nessuna sovrastruttura, nessuna discrepanza, nessuna prevaricazione. Eravamo tutti ed eravamo lì, nel nostro posto e nel nostro momento, in un noi che è nato nel modo più naturale possibile.
Quei ragazzi sono l'esempio che la fede esiste, se coltivata ti riempie la vita. La salesianità vissuta nel campetto a ridosso del vigneto non solo ci ha riempito il cuore, ma ci ha permesso di fare esperienza concreta di vita e di fede. L'esercizio spirituale diventa ragionamento estemporaneo se non accompagnato da pazienza ed azione.
L'Albania, per noi, è stata questo e forse molto altro che ad oggi non sapremmo descrivere e non per disfunzionalità, ma perché qui abbiamo seminato. Una canzone cita "Tutto è una minaccia per chi ha un buco dentro all'anima". E quei ragazzi, con l'anima bucata, ci hanno dato grande prova di come questa affermazione sia una bugia. Forse il cantante di questa canzone non si è mai affacciato nella realtà di Gur I Zi.
La bandiera Albanese ha uno sfondo rosso e una grande aquila nera. Non puoi insegnare ad un'aquila come si vola. E quelle ali le hanno spezzate, bruciate e schiacciate. Ma quell' aquila ha continuato a solcare, con orgoglio, il cielo del mondo dimostrando a tutti ciò che infondo, contraddistingue le aquile: forza, resistenza e libertà.
Faleminderit Albania...Continua a volare alto!
I partecipanti all'esperienza missionaria